venerdì 30 ottobre 2009

Note a margine sull'incontro all'Aula Absidale con Evangelisti e Alessandrini

Festival della Storia all’Aula absidale di Santa Lucia: incontro sulla
pirateria con Valerio Evangelisti e Luca Alessandrini
19 ottobre 2009 - 19:09

(Cosimo Plasmati)

Un teschio con due tibie incrociate, il Jolly Roger: basta nominarlo e
subito la nostra fantasia e la memoria recente si riempiono di uomini con
una benda sull’occhio, la barba folta e una cappello a falde tese. I pirati:
ritratto di una porzione molto ristretta della realtà, che è stato poi
arbitrariamente esteso a tutta la pirateria.

Luca Alessandrini, direttore dell’Istituto Storico Parri e promotore
dell’incontro, e Valerio Evangelisti, autore di Tortuga e Vera Cruz, in
questo incontro in collaborazione con la casa editrice Odoya, che ha
all’attivo una serie di pubblicazioni di importanti testi sulla pirateria,
hanno sfatato nell’incontro di ieri nell’Aula absidale di Santa Lucia il
mito del pirata gentiluomo, eroe dei sette mari e difensore della libertà
come siamo abituati a vederlo adesso.

Certo, come ha evidenziato Alessandrini, l’elemento libertario è sempre
stato molto forte (e come poteva essere altrimenti, essendo i pirati dei
reietti?), e infatti ha dato vita proprio ai numerosi segni delle bandiere
pirata, dei quali il Jolly Roger è solo il più famoso: segni che per la
maggior parte rimandavano alla morte o al tempo (una clessidra, per
esempio), per indicare che erano le uniche autorità alle quali ci si
intendeva sottomettere.

Un argomento “di moda” la pirateria? Certamente no, perché se di moda si
tratta, non è mai morta: anzi, è cominciata direttamente in contemporanea
con la cosiddetta “età d’oro” della pirateria, nel Settecento, quando fu
pubblicata un’opera storica attribuita a Daniel Defoe, che fece subito il
giro del mondo, ed è continuata poi con romanzi scritti in tutte le lingue,
e che hanno in Italia come maestro Salgari. Il fenomeno va anche oltre: una
divisione delle SS aveva come simbolo proprio il Jolly Roger. Ma qui il
significato attribuito alla morte, passato già attraverso il romanticismo,
si era rovesciato, e diventava un simbolo estetico da idolatrare; e poi
arriviamo ai giorni nostri, con i simboli pirateschi esibiti da centri
sociali e hacker, un uso che, secondo Alessandrini, è arbitrario e
sbagliato.

Ma quello che colpisce da subito, al di là dell’immagine piratesca e della
sua evoluzione, è il fatto che la pirateria abbia sempre avuto alle sue
spalle un potere forte che la proteggeva; e qua il riferimento all’attualità
è stringente. Alessandrini lamenta che non si parli mai seriamente dei
“nuovi pirati”, quelli che con mezzi tecnologicamente avanzati fanno ostaggi
sulle rotte più trafficate (vedi il recente caso in Somalia): è impossibile,
ai nostri giorni, nascondere una nave, quando i satelliti sono in grado di
guardare nel dettaglio la superficie terrestre. Il problema è, allora,
politico ed economico: c’è sicuramente qualcuno che protegge questi pirati,
che fornisce loro i mezzi per assaltare le navi, che li nasconde.
Esattamente come succedeva nel Seicento, quando i governi inglese, francese
e olandese davano l’autorizzazione (la “lettera di corsa”, da cui il nome
“corsari”) a un avventuriero di poter nuocere ai traffici spagnoli di
oltremare, in cui passava la maggior parte dell’oro e dell’argento europeo.
Fu proprio grazie alla loro protezione che i pirati poterono costruire la
loro fama; non a caso, quando invece furono messi da parte perchè la potenza
spagnola era tramontata e intralciarono i traffici inglesi, furono spazzati
via in pochi anni.

Non sottovalutare i legami politici, quindi, e storicizzare il tema evitando
l’idea romantica del pirata, come ha sottolineato Valerio Evangelisti, da
bambino lettore di Salgari, e poi di romanzi che descrivevano i pirati come
barbari assetati di sangue: la verità sta nel mezzo. Erano avventurieri,
alcuni quindi anche dotati di personalità, come Morgan o Lafitte, che nella
maggior parte dei casi non avevano esperienza di mare (erano ex graduati
dell’esercito a terra) e non sapevano neanche nuotare; l’Olonese per
esempio, che tagliava mani e gambe ai suoi prigionieri, per un errore finì
su un’isola dove fu divorato dai cannibali. A parte l’aneddotica, però, che
potrebbe occupare (come infatti fa) volumi su volumi, uno studio appena più
approfondito ci svela che questo mondo è un po’ meno avventuroso, e un po’
più terribile di come sembra. Venivano reclutati nelle ciurme pirata tutti,
dagli orfani (usati come “svago” per i marinai che non vedevano una donna da
troppo tempo) ai disertori, o perfino agli avventori di una locanda che
venivano ubriacati e si risvegliavano imbarcati in un viaggio che sarebbe
durato parecchi anni. Non erano esperti nella navigazione: sostavano nei
pressi delle grandi rotte, e viaggiavano quasi solo in linea retta, per
piccoli spostamenti. Praticavano lo schiavismo: la “democrazia” di cui si
parla negli ultimi tempi, che tende a rivalutarli come precursori di tutto
(femminismo compreso: altro mito da sfatare, quello delle donne pirata che
ebbero sempre un ruolo marginale e molto maschilizzato), in realtà valeva
solo per una certa fascia di persone. Ultima importante nota, quella del
fascino dell’isola di Tortuga, “capitale dei pirati” che altro non era se
non la residenza del governatore francese dell’isola di Haiti, che dall’alto
della sua imprendibile fortezza proteggeva i pirati in cambio di sostanziose
mazzette. Anche qui, quindi, c’entra poco Johnny Depp e la sua ciurma
impetuosa.

Ma allora, perchè questo tema continua ad affascinarci, e soprattutto a
sfuggire alla storicizzazione per rifugiarsi sempre nell’idealizzazione? La
risposta forse, come ha ricordato concludendo Alessandrini, la conoscevano
già i Greci, secondo i quali “ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e
quelli che vanno per mare”. Il mare è pericoloso, è mortale, va sfidato:
forse per questo non riusciamo a guardare i pirati di oggi con occhi
oggettivi e a combattere questo fenomeno.

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